Come noto, la corretta determinazione dei prezzi di trasferimento prevista nello scambio di beni e servizi infragruppo, è un argomento di fondamentale importanza che interessa tutti i contribuenti ad ampio respiro internazionale, i quali investono nel mercato estero tramite imprese controllate o mediante la costituzione di una stabile organizzazione.
In estrema sintesi, il valore di acquisto o di cessione praticato nelle transazioni economiche e commerciali intercompany non può essere determinato sulla base di logiche commerciali del gruppo multinazionale o, ancora, in funzione di politiche di pianificazione fiscale aggressiva, ma deve rispondere al c.d. “principio di libera concorrenza” recentemente stabilito dall’Ocse a livello internazionale.
Il citato principio, specificatamente previsto dall’articolo 9, paragrafo 1, del modello Ocse di convenzione, stabilisce che il prezzo stabilito nelle transazioni commerciali intercorse tra imprese associate deve corrispondere al prezzo che sarebbe stato convenuto tra imprese indipendenti per transazioni identiche o similari sul libero mercato.
Sul punto, l’ordinamento tributario italiano contempla precise regole: infatti, sulla base delle disposizioni contenute nell’articolo 110, comma 7, Tuir “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, se ne deriva un aumento del reddito. La medesima disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, secondo le modalità e alle condizioni di cui all’articolo 31-quater del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600”.
In ambito internazionale, le regole logico-giuridiche previste per la determinazione dei prezzi di trasferimento sono contenute nelle linee guida sui prezzi di trasferimento infragruppo, aggiornate nel mese di luglio 2017.
A livello domestico, per recepire concretamente i contenuti delle raccomandazioni internazionali, in data 14 maggio 2018, il Mef ha approvato un apposito decreto, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 23 maggio 2018, che prevede concrete indicazioni per l’applicazione del citato principio di libera concorrenza.
Anche la prassi operativa (Cfr. Manuale in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza volume III – parte V – capitolo 11 “Il contrasto all’evasione e alle frodi fiscali di rilievo internazionale”) si occupa del transfer pricing, espressione mediante la quale si identifica la pratica, adottata all’interno di un gruppo di imprese, attraverso la quale si realizza un trasferimento di quote di reddito tra consociate, mediante l’effettuazione di cessioni di beni o prestazioni di servizi ad un valore diverso da quello che sarebbe stato pattuito tra entità indipendenti.
Il citato documento di prassi chiarisce che, con la recente introduzione nel Tuir del principio di libera concorrenza, rispetto al precedente approccio basato sul “valore normale di mercato”, affermando espressamente i principi raccomandati dall’Ocse, il Legislatore oggi ammette la possibilità di considerare più che i valori “di listino” (a cui fa riferimento l’articolo 9 Tuir), le specifiche condizioni economiche delle operazioni (ad esempio, i termini e le modalità di pagamento, la previsione di interessi di mora, gli oneri logistici, il rischio dei resi o dell’invenduto).
Sempre in ambito di transfer price, con specifico riferimento agli elementi positivi di reddito previsti per l’eventuale dilazione di pagamento accordata nei confronti di un’impresa appartenente allo stesso gruppo multinazionale, interessanti spunti interpretativi sono rinvenibili nella sentenza n. 2320/12/2018 della CTR Emilia Romagna, depositata in data 2 ottobre 2018.
In particolare, come rilevato dal giudice di merito, la dilazione di pagamento infragruppo realizza un’operazione finanziaria (rectius un vero e proprio finanziamento), con conseguente maturazione di interessi attivi.
Il caso riguardava una cessione di beni da parte di un’impresa italiana nei confronti di una consociata estera con il pagamento dilazionato a 360 giorni senza, tuttavia, prevedere l’applicazione di proventi finanziari.
Il giudice del gravame, confermando la decisione assunta in primo grado, accoglieva la tesi dell’Amministrazione finanziaria che aveva constatato, su base presuntiva, la maggiore base imponibile soggetta a tassazione.
In particolare, oggetto della verifica operata da parte dell’Agenzia delle entrate erano stati anche i termini di pagamento delle fatture di vendita emesse dall’impresa italiana nei confronti di una società estera soggetta al controllo indiretto da parte della società verificata.
Nel corso di una verifica fiscale era emersa l’applicazione di termini di pagamento superiori rispetto a quelli praticati nei confronti di clienti terzi indipendenti operanti nel medesimo mercato di riferimento (USA) in quanto, come detto, veniva concesso un termine di pagamento di 360 giorni.
A parere del giudice tributario, appariva evidente come il termine indicato “lasci intendere che si realizzi indirettamente un’operazione finanziaria volta a consentire alla società estera di godere di beni per la immediata rivendita senza essere tenuta al loro pagamento secondo i termini d’uso commerciale”.
In definitiva, sulla base delle disposizioni sancite dall’articolo 110, comma 7, Tuir la società mutuante italiana avrebbe dovuto considerare, quale elemento positivo del reddito d’impresa, gli interessi attivi maturati calcolati nella misura del tasso di interesse del 4,635% (pari all’Euribor 1 m/365 anno 2007, a cui andava aggiunto lo spread dello 0,5%).
Fonte: Euroconference
di Marco Bargagli – 19 settembre 2019