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Depositi IVA: vietati quelli virtuali ma riconosciuta l´inversione contabile

Con la circolare n. 12/E del 24 marzo 2015, l’Agenzia delle Entrate riepiloga le questioni interpretative relative alla disciplina dei depositi IVA, anche alla luce delle problematiche trattate in sede di interpello, nonché del pronunciamento della Corte di Giustizia UE nella causa C-272/13 – Equoland.

I depositi IVA sono luoghi fisici situati nel territorio dello Stato italiano all’interno dei quali la merce vieneintrodotta, staziona, e poi viene estratta. Dal punto di vista fiscale i depositi IVA consentono che, per determinate operazioni, l’IVA sia assolta dall’acquirente finale solo al momento dell’estrazione dei beni, con il meccanismo dell’inversione contabile (c.d. reverse charge).

D.L n. 331 del 1993: art. 50-bis, comma 1

L’art. 50-bis, comma 1, del D.L. n. 331 del 1993 prevede che possono essere introdotti e custoditi nei depositi IVA beni nazionali e comunitari, non destinati alla vendita al minuto durante la loro giacenza in detti locali.

Possono essere introdotti in deposito IVA anche beni provenienti da Paesi terzi, purché preventivamente immessi in libera pratica; è indispensabile, infatti, che i beni provenienti da territori extracomunitari abbiano perso lo status di “merce non comunitaria” e acquisito quello di “merce comunitaria”, così da poter liberamente circolare sul territorio degli Stati membri. Relativamente a queste ultime operazioni il deposito IVA ha trovato maggior “successo” ed impiego da parte degli operatori.

Circolare n. 12/E del 24 marzo 2015

La recente circolare a tale proposito è intervenuta chiarendo che, in ragione della funzione svolta dall’istituto del deposito IVA, le agevolazioni in esame si rendono applicabili se i beni sono materialmente introdotti nel deposito, non essendo sufficiente la mera presa in carico documentale degli stessi nell’apposito registro detenuto dal depositario (il cosiddetto “deposito IVA virtuale”).

Il deposito deve comunque assolvere le funzioni di stoccaggio o custodia dei beni, anche se non è obbligatorio il materiale scarico dei beni dal mezzo di trasporto (che potrebbe essere costituito anche da un container).

Nei casi d’immissione in libera pratica, l’attestazione da rilasciare in dogana, che prova la destinazione dei beni in un deposito IVA, di cui all’art. 4, comma 1, ultima parte del D.M. n. 419 del 1997, deve fare esplicito riferimento anche al rispetto delle suddette condizioni. L’assenza o la simulazione del contratto di deposito impediscono l’applicazione delle disposizioni agevolative di cui all’art. 50-bis del D.L. n. 331 del 1993.

Il cedente, che introduce i beni nell’interesse del cessionario, è tenuto a munirsi di idonea prova attestante l’avvenuta introduzione, quale ad esempio copia del documento di trasporto, recante l’attestazione resa dal gestore in ordine all’introduzione materiale dei beni ed alla loro presa in carico.

A questa regola fanno eccezione le prestazioni di servizi (in particolare operazioni di perfezionamento e manipolazioni usuali) relative ai beni custoditi nel deposito IVA, le quali si considerano materialmente eseguite nel deposito anche se eseguite nei locali limitrofi, senza tempi minimi di giacenza, né obbligo di scarico del mezzo di trasporto.

Sentenza Corte di Giustizia Ue causa C-272/13 – Equoland e posizione dell’Agenzia delle Entrate

La sentenza del 17 luglio 2014 dalla Corte di Giustizia Ue causa C-272/13 – Equoland ha ribadito che, per l’introduzione di beni importati nel deposito fiscale IVA, di cui all’art. 50-bis, comma 4, lettera b, del D.L. 30/8/1993, n. 331, l’esclusione del pagamento dell’IVA in dogana è subordinata all’introduzione fisica della merce per cui non è consentita l’introduzione “virtuale”, che consiste nella semplice annotazione fatta nel registro tenuto dal gestore senza l’effettivo deposito nei locali.

La mancata osservanza dell’introduzione fisica comporta che l’IVA, che nel caso di specie avrebbe dovuto essere versata al momento dell’importazione, se è assolta, all’atto dell’estrazione dei beni dal deposito, mediante il meccanismo dell’inversione contabile, costituisce un pagamento tardivo dell’imposta. Secondo una giurisprudenza costante della Corte, in mancanza di un tentativo di frode, tale violazione ha carattere formale e non può rimettere in discussione il diritto alla detrazione del soggetto passivo.
Sul punto specifico l’Agenzia delle Entrate ritiene che, in ottemperanza ai principi espressi dalla Corte di Giustizia, nei casi analoghi in fatto e in diritto a quello esaminato, non si debba procedere alla richiesta dell’imposta già assolta mediante reverse charge, a condizione, da accertare caso per caso, che non sussista evasione o tentativo di evasione.
E’ stata confermata la legittimità della sanzione secondo la seguente articolazione:

  • nella misura del 2% (cioè 1/15 del 30%), se la regolarizzazione relativa all’estrazione virtuale dei beni dal deposito è stata fatta nello stesso giorno in cui è presentata in dogana la dichiarazione di immissione in libera pratica della merce importata;
  • del 30% ridotta di 1/15 per ogni giorno di ritardo (cioè 2% per un giorno di ritardo, 4% per due giorni, ecc.), se la regolarizzazione avviene entro il 15° giorno successivo all’annotazione nel registro delle fatture;
  • del 30% dell’importo dell’IVA che non è stata versata al momento dell’importazione.

La competenza ad irrogare la sanzione è dell’Agenzia delle Dogane poiché essa consegue al ritardato o omesso versamento dell’IVA esigibile in dogana al momento dell’effettuazione di un’importazione di beni (art. 70 del DPR n. 633 del 1972).

La circolare n. 12/E del 24 marzo 2015 chiarisce anche le modalità di determinazione della base imponibile riconoscendo i cosiddetti “cali fisici e tecnici”, così come riconoscendo la possibilità per gli operatori extra comunitari di poter operare attraverso la nomina di un rappresentante fiscale “leggero”.

Gian Luca Giussani