Nelle cessioni intracomunitarie può succedere che le formalità inerenti al codice identificativo non vengano espletate in maniera regolare. A seguito di tale evenienza ci si chiede dunque se il regime di non imponibilità persista oppure no e per avere una risposta in merito, si dovrà partire innanzitutto dall’analisi della normativa e della prassi in materia di IVA, per poi concludere con pronunce giurisprudenziali di rilievo. Il comma 2 dell’articolo 46 del D.L. 331/93 stabilisce che la fattura deve contenere l’indicazione del numero di identificazione attribuito, agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, al cessionario dallo Stato membro di appartenenza. L’articolo 50 del D.L. 331/1993 dispone:
La risoluzione n. 25 del 12/02/1997 subordina il trattamento agevolato consistente nella non imponibilità alla sussistenza di determinati requisiti di legge, ovverosia:
Secondo il documento di prassi, pertanto, il cedente nazionale, al fine della non imponibilità, è tenuto a controllare, attraverso l’attivazione di un sub-procedimento, il cui atto iniziale è costituito da una “richiesta”, e l’atto finale da una formale “conferma”, la correttezza dei dati identificativi fornitigli dall’acquirente. Detta conferma rileva, appunto, come fatto di legittimazione in capo al cedente per beneficiare del trattamento agevolativo.
La giurisprudenza comunitaria si è pronunciata in maniera del tutto diversa, in particolare, secondo la Corte di giustizia dell’Unione Europea (sentenza del 06-09-2012, n. 273/11) infatti “il numero identificativo IVA dell’acquirente non figura tra le condizioni sostanziali della cessione intracomunitaria. Indubbiamente, si tratta di un elemento che fornisce la prova dello status di soggetto passivo, agevolando i controlli, ma è pur sempre un requisito formale che non può condizionare l’applicazione del regime impositivo proprio degli scambi intracomunitari”.
La giurisprudenza nazionale, con la sentenza della Cassazione 12455 del 2007, afferma: “la violazione degli artt. 46 e 50 del D.L. n. 331/1993, che impongono l’indicazione nelle fatture del codice identificativo del cliente estero cessionario acquirente di beni in ambito intracomunitario, non esclude di per sé l’operazione dall’ambito di applicazione della normativa in questione. Ciò che la norma prescrive, infatti, per il non assoggettamento ad imposta sul territorio italiano dell’operazione è esclusivamente che il cliente estero intracomunitario abbia trasmesso al cedente il proprio numero di partita Iva e, cioè, che il cessionario si identifichi come soggetto passivo del tributo nel proprio Stato di residenza. Infatti, dalle irregolarità formali delle fatture derivano conseguenze sul piano sanzionatorio, senza che operazioni per loro natura non imponibili divengano imponibili in dipendenza di una mera irregolarità formale”.
Secondo la giurisprudenza, dunque, la non imponibilità dell’operazione ai sensi dell’art. 41 non è condizionata all’indicazione in fattura del codice identificativo del cessionario estero, atteso che la legge si limita a prescrivere, per il non assoggettamento ad imposta sul territorio italiano, che il detto cessionario estero intracomunitario abbia trasmesso al cedente il proprio numero di partita IVA, e cioè che quello si identifichi come soggetto passivo del tributo nel proprio Stato di residenza. Secondo la sentenza sopra citata va pertanto esclusa l’imponibilità delle operazioni di cessione per il solo fatto che la società cedente abbia omesso di indicare in fattura il codice identificativo del cessionario estero intracomunitario. La giurisprudenza dell’Unione europea e quella nazionale sembrano dunque salvaguardare il “diritto” alla non imponibilità, prediligendo la sostanza dell’operazione alla forma della stessa.
di Sandro Cerato e Chiara Rizzato – 1 febbraio 2016
Fonte Euroconference