Ai fini della determinazione del credito per imposte assolte all’estero detraibile dall’imposta italiana ai sensi dell’articolo 165 del Tuir, occorre calcolare il rapporto fra il reddito prodotto all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite fiscali portate in diminuzione. Si pone quindi la questione di come debba essere quantificato il numeratore di questo rapporto – ovverosia, il reddito prodotto all’estero – ed in modo particolare se questo debba essere rappresentato direttamente dai proventi realizzati all’estero, ed ivi soggetti ad imposizione concorrente con quella italiana, oppure come differenza fra detti proventi ed i costi che ad essi possono (o potrebbero) essere riferiti.
Questo tema è stato a lungo discusso in dottrina, poiché fino alla pubblicazione della circolare n. 9/E del 2015 non vi era una posizione ufficiale dell’Amministrazione finanziaria. In dottrina, prevaleva un approccio per così dire “lordista” della determinazione di tale valore, anche al fine di realizzare una corrispondenza con il reddito assoggettato a tassazione nello Stato estero e quindi agevolare un’effettiva rimozione della doppia imposizione. Il Commentario Ocse al Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni – par. 62 e 53 – non è di grande aiuto in quanto rimette la scelta ai rispettivi legislatori nazionali.
In Italia, il Legislatore, in sede di pubblicazione dello schema di D.Lgs. 344/2003, aveva cercato di prendere una posizione propendendo per la soluzione “lordista”; tuttavia, la versione finale del decreto non conteneva più questa precisazione, secondo la dottrina proprio per evitare che questa disposizione legislativa potesse essere vista come avente carattere innovativo.
La questione ha quindi trovato un chiarimento nella citata circolare n. 9 del 2015, in cui l’Amministrazione finanziaria compie questo distinguo:
La circolare mette poi in guardia da possibili strumentalizzazioni elusive di questo approccio che potrebbero essere aggredite alla luce della disciplina dell’abuso del diritto, avendo probabilmente riguardo a casi patologici in cui vi fosse una sproporzione clamorosa fra costi esteri e relativi proventi, sì da alterare artatamente il rapporto fra valori che è funzionale alla determinazione del credito detraibile.
Le ragioni della preferenza per l’approccio “lordista” che, come detto, è da ritenersi confermativa e quindi valida anche per i periodi d’imposta precedenti, sono diverse; fra esse, quella di garantire la corrispondenza fra il valore del reddito soggetto ad imposta all’estero ed il valore per il quale viene riconosciuto al contribuente italiano il recupero dell’imposta assolta all’estero. Oltre a questa, rileva anche la obiettiva difficoltà di determinare costi che sono riferibili in modo sufficientemente specifico ai proventi realizzati da attività svolte all’estero: si pensi al caso degli interessi da finanziamenti, delle royalties per la concessione in uso di proprietà intellettuali, eccetera.
Questo approccio dovrebbe quindi valere anche nei casi di redditi prodotti nell’esercizio dell’impresa in Stati esteri ove non è presente una stabile organizzazione del contribuente italiano.
Infine, sarebbe logico applicare questo approccio anche ai redditi professionali realizzati all’estero in assenza di una base fissa, ma pur tuttavia ivi soggetti a tassazione; la circolare n. 9 del 2015, invece, al par. 3.2, riconduce i redditi di lavoro autonomo sempre alla formulazione “nettista”, con una posizione che, per questa particolare circostanza, non pare del tutto condivisibile.
di Fabio Landuzzi – 16 giugno 2016