L’ordinamento nazionale (articolo 73 del Tuir) contiene i criteri, alternativi tra di loro, che consentono di riqualificare in Italia la residenza fiscale di un soggetto non residente che ha stabilito la propria sede legale ed amministrativa all’estero.
Nello specifico, le società, gli enti ed i trust sono considerati fiscalmente residenti in Italia, quando per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni) hanno mantenuto la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.
Il tema della corretta residenza fiscale delle persone giuridiche e degli altri soggetti Ires assume fondamentale importanza, tenuto conto che una persona giuridica residente nel territorio dello Stato, sarà poi assoggettata a tassazione per i redditi ovunque prodotti nel mondo, in base al noto principio della tassazione su base mondiale (c.d. “world wide taxation”).
In merito, a livello internazionale, gli accordi bilaterali contro le doppie imposizioni sui redditi e sul patrimonio ispirati al modello Ocse di tassazione, onde evitare conflitti di residenza tra Stati, contengono specifiche disposizioni che consentono di eliminare fenomeni di doppia imposizione a carico dei vari soggetti coinvolti.
Nello specifico, per individuare l’esatta residenza fiscale del soggetto passivo, la prassi internazionale fa riferimento al criterio della sede di direzione effettiva, c.d. “place of effective management”, la cui definizione è rinvenibile nel paragrafo 24 del commentario Ocse, modificato dal documento “The 2008 update to the OECD Model Tax Convention” del 18 luglio 2008.
Quindi, qualora per effetto delle disposizioni domestiche un soggetto ha svolto, per la maggior parte del periodo d’imposta, l’oggetto sociale in Italia, mentre la sede di direzione effettiva viene individuata all’estero, la convenzione internazionale contro le doppie imposizioni sui redditi risolverà il conflitto di residenza dando prevalenza al criterio del place of effective management sopra illustrato.
Le principali controversie che nascono tra il Fisco ed il contribuente riguardano la constatazione di comportamenti elusivi – posti in essere dai gruppi multinazionali – finalizzati ad ubicare formalmente all’estero la residenza fiscale di un’impresa controllata, con il chiaro intento di ottenere un indebito regime fiscale privilegiato.
In buona sostanza, nelle ipotesi rientranti nella c.d. esterovestizione societaria, l’impresa di diritto estero continua ad operare sul territorio dello Stato italiano, ove è localizzato il top management che impartisce, in loco, direttive strategiche ed operative.
Quindi, la residenza fiscale del contribuente viene formalmente localizzata all’estero (in ambito UE o extra UE), solo per sottrarsi agli adempimenti tributari previsti dall’ordinamento di reale appartenenza e beneficiare, simmetricamente, di un regime fiscale più favorevole.
Si è recentemente consolidato un orientamento da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità che ritiene potersi constatare l’esterovestizione solo in presenza di strutture di puro artificio costituite oltrefrontiera.
Una prima pronuncia sul tema della fittizia residenza fiscale è stata emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Roma (sentenza n. 1694/41/2014), nella quale i giudici tributari di prime cure hanno rilevato che la riqualificazione della residenza fiscale può avvenire, in particolare in ambito UE, solo in presenza di strutture artificiose estere.
Tale concetto giuridico è stato recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 27113/2016), nella quale gli ermellini hanno affermato che non si può parlare di fittizietà della sede estera in quanto la società aveva la sede legale ed amministrativa nello Stato di ubicazione, era regolarmente assoggettata ad imposizione, gli amministratori risiedevano all’estero, luogo in cui venivano prese le fondamentali decisioni concernenti la società. Quindi, secondo l’autorevole precedente giurisprudenziale, è necessario individuare il luogo di effettiva adozione delle decisioni e delle direttive amministrative e di coordinamento delle partecipazioni possedute dalla società madre, secondo l’attività tipica di holding da quest’ultima esercitata, in linea con il criterio in precedenza illustrato definito “place of effective management”.
Sul punto, per verificare gli indicatori di artificiosità delle società estere, occorre rifarsi alle indicazioni diramate da parte dell’Agenzia delle Entrate (circolare 51/E/2010), in base alla quale una struttura di puro artificio non svolge una reale attività economica, non possiede alcuna autonomia gestionale e finanziaria, risulta essere “sotto-capitalizzata” (spesso con un capitale sociale sottoscritto e versato di pochi euro) ossia, in altri casi, eccessivamente sovra-capitalizzata rispetto alla minima attività economica posta in essere.
Fonte: Euroconference
di Marco Bargagli – 28 febbraio 2017