Come noto, la normativa fiscale interna contiene specifiche disposizioni per il contrasto dei fenomeni di delocalizzazione fittizia all’estero della sede di una società o di un ente.
L’articolo 73, comma 3, Tuir prevede che le società, gli enti ed i trust sono considerati residenti in Italia quando, per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni), hanno alternativamente la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.
L’articolo 58, comma 3, D.P.R. 600/1973, rubricato “domicilio fiscale”, stabilisce che i soggetti diversi dalle persone fisiche hanno il domicilio fiscale nel Comune in cui si trova la loro sede legale o, in mancanza, la sede amministrativa. Se anche questa manca, essi hanno il domicilio fiscale nel Comune ove è stabilita una sede secondaria o una stabile organizzazione e, in mancanza, nel Comune in cui esercitano prevalentemente la loro attività.
Il fenomeno di pianificazione fiscale conosciuto con il termine di “esterovestizione societaria”, si concretizza mediante la dissociazione tra residenza fittiziamente localizzata all’estero e residenza “reale”, mantenuta sul territorio italiano, ove il soggetto passivo Ires ha stabilito la propria sede dell’amministrazione o, in subordine, esercita la propria attività (rectius l’oggetto sociale).
In tema di residenza fiscale, la prassi operativa di riferimento ha affermato che sia con riguardo alle persone fisiche sia con riguardo alle società, si assiste spesso a fenomeni di esterovestizione della residenza fiscale, consistenti nella fittizia localizzazione della residenza in Paesi o territori diversi dall’Italia, al fine di usufruire di un trattamento fiscale privilegiato rispetto a quello nazionale. L’antigiuridicità del comportamento, sotto il profilo fiscale, consiste proprio nel fatto che, contrariamente a quanto formalmente dichiarato relativamente alla propria ubicazione, il soggetto passivo risiede nel territorio dello Stato italiano, sottraendosi così agli adempimenti richiesti dalla legislazione del Paese di appartenenza.
In queste ipotesi la localizzazione della dimensione soggettiva si fonda su elementi dichiarativi connotati da falsità, pertanto, tutti i fenomeni di esterovestizione non possono, in nessun caso, essere ricondotti nell’ambito delle fattispecie elusive, ma rappresentano veri e propri casi di evasione (cfr. Manuale in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali”, circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza, volume III – parte V – capitolo 1, “Le metodologie di controllo basate su prove presuntive: il riscontro indiretto- presuntivo”, pag. 23 e ss.).
In ambito internazionale, l’articolo 4, paragrafo 3, modello Ocse di Convenzione prevede che, nell’ipotesi in cui una società sia considerata residente in due diversi Stati, la residenza fiscale della persona giuridica deve essere individuata sulla base di un accordo tra le autorità competenti (denominato “mutual agreement”), che deve tenere conto del luogo di direzione effettiva, del luogo di costituzione e di ogni altro fattore rilevante.
Sul punto il nuovo modello Ocse di Convenzione, approvato in data 21.11.2017, recepisce le indicazioni contenute nella “Multilateral Convention to Implement Tax Treaty Related Measures to Prevent Base Erosion and Profit Shifting”, sottoscritta in data 07.06.2017 dall’Italia e da altri 66 Paesi.
Il citato documento rende, così, operative le specifiche azioni anti-evasione elaborate nel c.d. “progetto BEPS” (“Base Erosion and Profit Shifting”) che, come noto, intende contrastare i fenomeni di evasione fiscale internazionale.
Con particolare riferimento alla residenza fiscale di alcune società di diritto olandese, si cita il recente orientamento espresso dalla suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 16697/2019 del 21 giugno 2019, che ha accolto la tesi proposta da parte dell’Agenzia delle entrate proprio su un caso di esterovestizione societaria.
Gli ermellini hanno ricordato che la questione esaminata va ricondotta alla c.d. “esterovestizione”, termine con cui si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale citando, simmetricamente, alcuni precedenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità (cfr. sentenza n. 2869 del 7 febbraio 2013 e sentenza n. 33234 del 21 dicembre 2018).
I supremi giudici richiamano anche la giurisprudenza unionale (cfr. sentenza Corte di Giustizia Ue C-196/04 del 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas) che, con riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, ha affermato – in tema di libertà di stabilimento – che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa “non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà”; tuttavia, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa se riguarda specificamente le “costruzioni di puro artificio” finalizzate a escludere la normativa dello Stato membro interessato.
In buona sostanza, una eventuale restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare “costruzioni puramente artificiose”, prive di “effettività economica”, finalizzate unicamente a eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.
I giudici di piazza Cavour effettuando un interessante analisi comparata tra la normativa domestica e le disposizioni internazionali, hanno altresì individuato i punti di sostanziale convergenza: la nozione di “sede dell’amministrazione”, infatti, in quanto contrapposta alla “sede legale”, deve ritenersi coincidente con quella di “sede effettiva” (di matrice civilistica), intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente.
A parere dei supremi giudici di legittimità l’ampia disamina, compiuta dalla CTR, della normativa fiscale, civilistica e pattizia in tema di residenza fiscale delle società e della relativa interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, nonché degli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia Europea, “è invero corretta laddove, in sintesi, giunge alla conclusione della assimilazione del concetto (fiscale) di sede dell’amministrazione (qualificato come uno dei criteri “alternativi” indicati nell’art. 73, comma 3, Tuir) a quello (civilistico) di “sede effettiva” della società ed intende quest’ultima, in sostanziale conformità ai principi sopra enunciati, come il luogo in cui si svolge in concreto la direzione e la gestione dell’attività d’impresa e dal quale promanano le relative decisioni”.
In particolare, il giudice di merito ha osservato che: “ricorrevano le condizioni necessarie e sufficienti per ottenere la sede legale in Olanda; ma questa non era certamente la sede abituale in cui veniva svolta l’attività direttiva e decisionale delle società […] il luogo concreto di formazione ed espressione della volontà e degli atti di direzione era l’Italia”.
In definitiva, confermando l’ipotesi di esterovestizione, la sede effettiva (i.e. “amministrativa”) della società coincideva con quella legale italiana (oltre che con il luogo dell’oggetto principale dell’attività), con ciò escludendosi la configurabilità in concreto della residenza fiscale in Olanda (“da quanto sopra deriva che la sede di amministrazione delle quattro società olandesi deve ritenersi ubicata in Italia con tutte le conseguenze ai fini fiscali”).
Fonte: Euroconference
di Marco Bargagli – 6 settembre 2019