Sia per gli operatori, sia per l’Amministrazione e i giudici tributari, la materia dei prezzi di trasferimento è connotata da grande incertezza. In ragione degli interessi in gioco e della sua essenza di tipo valutativo ed estimativo, si presta a differenti interpretazioni sia in sede interna che internazionale, che si traducono in un ostacolo alla libertà economica e in un disincentivo per gli operatori internazionali. Sul piano pratico, le speranze sono affidate ad una maggior collaborazione internazionale, all’armonizzazione delle discipline e ai metodi deflattivi. Di questo tema si tratterà nel corso del convegno “Il diritto tributario nella giurisprudenza della Corte di Cassazione”, organizzato dalla Scuola di formazione IPSOA di Wolters Kluwer in collaborazione con Rassegna Tributaria, che si svolgerà a Palermo il 23 e 24 giugno 2016
La problematica fiscale sui prezzi di trasferimento – più nota forse nell’anglicismo di transfer pricing – non ha origine recenti, potendosi collocare i primi interventi normativi nel secondo decennio del secolo scorso ad opera dell’ordinamento statunitense Il termine identifica, nella comune definizione, il procedimento o i procedimenti per determinare il prezzo ritenuto più appropriato dalle leggi fiscali dei vari Stati, in una determinata transazione di beni o servizi infragruppo vale a dire tra società controllate o collegate quando esse siano residenti di due Stati diversi e che ultimamente potevano riguardare – sia pure disputata sia in giurisprudenza che in dottrina – anche gruppi di società esclusivamente residenti. Ora il transfer pricing interno non è più contestabile a seguito della entrata in vigore dell’art. 5, comma 2, D. Lgs. n. 147/1015 che introduce una norma di interpretazione.
Le produzioni e commercializzazioni nelle diverse forme di gruppi societari sono sempre più cresciute nella presente epoca, a misura che l’economia mondiale è diventata sempre più globalizzata. Secondo l’ultimo report della Commissione Europea, solo il 6% delle imprese europee non è mai stato coinvolto in controversie riguardanti la doppia imposizione. L’84% delle imprese ha affermato che nella maggior parte dei casi sono causate da transfer pricing. La fattispecie del transfer pricing è oggetto di disciplina da parte Testo Unico del 22 dicembre 1986, n. 917 ora dall’art. 110 – Norme generali sulle valutazioni (ex art. 76) nel testo in vigore dal 1° gennaio 2008, comma 7, che stabilisce il principio che i componenti del reddito sono valutati in base al valore normale (o arm’s length principle nell’aglicismo internazionale). Questa norma recepisce un’impostazione come definita nei suoi vari adeguamenti da tempo in sede internazionale e specificamente in sede OCSE, di cui l’Italia è membro.
La ratio di tale disposizione si rinviene nella duplice finalità di evitare che attraverso la manipolazione dei prezzi nelle cessioni internazionali sotto forma di costi o di ricavi si produca l’effetto di spostare la materia imponibile da uno Stato all’altro, in genere da Stati ad elevata tassazione verso Stati a minore o nulla imposizione (in tal senso, cfr. Cass. civ., sez. V, sentenza 22 aprile 2016, n. 8130).
Lo scopo della normativa è quindi visto come una misura che parrebbe con immediata risposta a contrastare pratiche evasive o elusive (Cass. civ., sez. V, sentenza n. 8130/2016). In realtà anche se non è escluso questo effetto “sottrattivo”, la finalità primaria della norma non era e non sarebbe di natura antielusiva in senso stretto riguardando, come ha evidenziato la migliore dottrina, e parte della giurisprudenza, una ben diversa esigenza: quella di norma di ripartizione e di allocazione corretta della fattispecie economica all’uno o all’altro Stato. Una norma quindi che attiene alla disciplina del corretto riparto della materia imponibile tra Stati secondo le regole ormai standards per i vari tipi di reddito.
Nel definire i contorni della ratio sottostante la disciplina in commento, anche una parte della Suprema Corte afferma che “una finalità antielusiva è pur compresa, ma non esaurisce gli obiettivi dello strumento” (cfr. Cass. civ. sez. V, sentenza 1° aprile 2016, n. 6331). Rileva, in questa prospettiva, l’esistenza di un “unitario centro di interesse economico” che possa legittimare “manovre sui prezzi di trasferimento infragruppo […] motivate anche da ragioni diverse da quella del vantaggio fiscale” (Cass. civ., sez. V, sentenza 5 agosto 2015, n. 16398).
Correttamente si sottolinea che il valore “normale” richiesto dalla norma contravviene alla regola generale della autonomia contrattuale che sta alla base delle imposte sul reddito e si pone come a predeterminazione legale. Per questo di dice che si tratta di una source rule, norma di attribuzione del potere di tassare ad uno Stato una determinata categoria reddito. Questa interpretazione non sempre acquisita dalla giurisprudenza interna, sia in sede di merito che di legittimità, come dimostrano le numerose sentenze sul punto, ha effetti non indifferenti sia sul piano dell’onere della prova posto che nella ipotesi che qui si sostiene l’onere di dimostrare la non congruità del valore normale spetta alla Amministrazione finanziaria. Nella tesi opposta come nelle ipotesi di elusione spetta al contribuente. (cfr. Cass. civ., sez. V, sentenze 5 agosto 2015, n. 16397 e n. 16399.)
L’ulteriore effetto si ripercuote sull’irrogazione delle sanzioni posto che le sanzioni anche amministrative scontano sempre la presenza di un elemento soggettivo, dolo o colpa, che nella tesi della determinazione legale della norma sarebbe espunto.
Non è mancata infatti anche recentemente, qualche sentenza della Cassazione che ha sfondato sul terreno della sanzioni amministrative salvo poi stabilire quale tipo e per quale norma violata – ma anche il muro della rilevanza penale. Una posizione questa che ora è preclusa a seguito della entrata in vigore del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 – Revisione del sistema sanzionatorio penale tributario.
Come ormai è noto da tempo sia per gli operatori sia per la amministrazione e i giudici tributari, la materia dei prezzi di trasferimento è connotata da grande incertezza né si sono rivelate di grande ausilio le circolari ministeriali che, a far tempo dal 1980, hanno tentato di dare univocità alla normativa.
Il punto cruciale è infatti proprio quello di stabilire quale sia – non tanto in astratto quanto con riferimento alla singola situazione in esame – il c. d. valore normale. Problema che le linee Guida OCSE avevano ancorato ad una nozione come quella di arm’s length principle o principio di prezzo di libera concorrenza e, ove impossibile questo da stabilire non essendovi transazioni similare, ad una precisa gerarchia (ora abolita) di procedimenti e quindi e rimessi al giudizio di amministrazione e giudici a favore di quello reputato quale appropriated best method in relazione al caso concreto, vuoi perché questo è condizionato dalla tipologia contrattuale, vuoi dal tipo di scambio, se bene o servizio, royalties, interessi, management fees, beni immateriali, etc. Vuoi perché il criterio della normalità viene assunto attraverso il rinvio all’art. 9 del TUIR, ad una norma quindi che è stata pensata per situazioni esclusivamente interne. Ancora aperto è il problema sulla nozione di controllo quale requisito di applicazione della norma art. 110 TUIR se da intendersi ai sensi della norma civilistica art. 2359 c.c., come sostenuto nella risalente circolare n. 32 del 1980 o in senso più ampio come ha statuito la Cassazione con la recente sentenza del 22 aprile 2016, n. 8130 includendovi “ogni ipotesi di influenza economica potenziale o attuale desumibile dalle singole circostanze”.
Trattandosi di questioni internazionali che prevedono almeno il confronto tra due Stati è da tempo verificato che le normative interne dei due Stati interessati siano divergenti. E questa constatazione apre ad un ulteriore e più rilevante problema: se la soluzione in termini di fonti sia affidata unilateralmente ad un solo Stato o ad entrambi con l’effetto di dar luogo ad una doppia imposizione se l’altro Stato non provvede in base alla regola del corresponding adjustment o, trattandosi di fattispecie internazionale, se la fonte sia riservata alla norma convenzionale internazionale come prevede l’art. 9 nel contenuto dell’OECD Model. Il che significa, nella interpretazione che poi ne ha dato e ne dà il Commentario e nei Documenti che si sono succeduti fino alle soluzioni in corso in sede di attuazione delle indicazioni degli Action Plans del 2013. Si tratta di capire in altri termini quale sia il valore prescrittivo di tali fonti internazionali sia pure qualificate come soft law, rispetto alla legge interna, in astratto prevalenti anche in base alle norme costituzionali, oggi art. 117 Cost..
Il tema della gerarchia delle fonti si propone anche con riguardo al diritto europeo attesa la vigenza di una Convenzione n. 90/436/CEE sui prezzi di trasferimento. Si tratta della Convenzione, relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate (cosiddetta Convenzione arbitrale), ratificata dall’Italia nel 1993 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1995. L’obiettivo è di supplire alle carenze della MAP prevista nel Modello OCSE di Convenzione fiscale atteso che il problema del transfer pricing si dimostra sensibile nel raggiungimento degli obiettivi del mercato comune e della libera circolazione dei fattori produttivi. Problema di cui si è già fatta carico la Corte di Giustizia UE, la quale ha ratificato le discipline restrittive in materia di transfer pricing, ma ha posto come condizione di liceità quello del limite di proporzionalità nei vincoli di applicazione tra cui quello probatorio.
In conclusione, malgrado i notevoli sforzi sia in sede domestica che internazionale di trovare soluzioni efficienti ed esaustive ed equilibrate tra interesse fiscale degli Stati e libertà dei contribuenti, allo stato la disciplina è ancora insoddisfacente e ostacolo all’espansione dell’economia internazionale. Né progressi significativi sono derivati dalla adozione della legislazione A.P.A. (Advance Price Agreements) nè da procedure conciliative come i MAP (Mutual agreement procedure), dalla legislazione sui ruling alla recente legge in adeguamento OCSE in materia di adeguamento dei prezzi di trasferimento, attuata in Italia con D.L. 31 maggio 2010, n. 78, che pure ha il vantaggio di scongiurare l’irrogazione delle sanzioni se la documentazione predisposta dalle imprese sia “idonea”.
Le attese e le speranze sono ora affidate al lavori internazionali in sede BEPS. Va dato atto che la problematica non è di facile compromesso e non si presta a facili soluzioni. Forse allo stato dell’arte la soluzione che può rivelarsi pragmaticamente più soddisfacente, sia pure sempre come second best, è quella del ruling preventivo e di un maggior coordinamento e cooperazione internazionale tra gli Stati interessati e dal punto di vista interno facendo acquisire ai vari soggetti interessati operatori amministrazione e giudici, maggior consapevolezza su quale sia la finalità della normativa sul transfer pricing e accettando che il valore “normale” sia solo un parametro non reale ed oggettivo ma – appunto – un parametro, un dato che può essere utile per una valutazione la meno approssimativa e soggettiva.
di Claudio Sacchetto – 17 giugno 2016